Genere:Mostra fotograficaTitolo della mostra:Namibia – Volti , vita, silenzio nei grandi spazi africani Inaugurazione:sabato 3 maggio 2014 – ore 18.30 Luogo:Casa di Rigoletto P.zza Sordello n. 23, Mantova – Italia (QUI la mappa) Autore:Gianni Cossu
A cura di: Carlo Micheli
Namibia – Volti , vita, silenzio nei grandi spazi africani
La polemica in rete è scoppiata dopo che a vincere uno dei più prestigiosi premi mondiali della fotografia (il World Press Photo Award 2013) è stato uno scatto di reportage-documentario palesemente ritoccato al computer dal fotografo Paul Hansen (visibile QUI). Il fulcro della discussione vede "schierati" da un lato i favorevoli al fotoritocco anche in scatti di reportage e dall'altro i contrari, che invece affermano l'importanza di quel genere di fotografia nel documentare la realtà senza alterarla. Di seguito noi del Fotocineclub di Mantova vi proponiamo i pareri di due appassionati fotografi del nostro club, Alberto Mazzocchi e Paolo Fiaccadori (profili visibili QUI), che in maniera totalmente personale ed indipendente ci spiegano come la pensano sull'argomento.
Andrea Danani - Fotocineclub Mantova
PAOLO FIACCADORI
Non credo che ci sia un criterio unico per decidere in quale misura un ritocco (software o no non importa) sia accettabile o no. La fedeltà alla realtà non è un criterio perchè nessuna fotografia lo è. Nel momento in cui scegli un’inquadratura includi elementi e ne escludi altri per cui anche una foto di reportage, rimane sempre un punto di vista personale. Usi il tele o il grandangolo? Nessun occhio umano vede come vedono questi obbiettivi. La foto in bianco e nero può rappresentare fedelmente la realtà? Nessuno ha mai visto in bianco e nero. Si potrebbe andare avanti all’infinito con esempi del genere anche solo rimanendo nel campo della fotografia analogica e senza scomodare quella digitale e le possibilità di modifiche al computer.
Rimane pur vero, però, che ci sono limiti che non si devono (o si è convenuto di non) oltrepassare, e questi limiti cambiano a seconda del genere di foto e del contesto in cui vengono utilizzate. Si tratta sempre, però, di limiti non netti e per quanto riguarda le possibilità di modificare le foto al computer la facilità con cui si ottengono “effetti speciali” non deve spingere ad abusarne.
Alla fine rimane sempre una questione di buon senso cosa, questa, che nessuno ha mai codificato e mai codificherà.
ALBERTO MAZZOCCHI
E’ appena stata eletta Miss Universo. Maria è la più bella del mondo e tutti le si fanno attorno per complimentarsi, per riprenderla, per intervistarla.
Lei, Maria, mentre si asciuga le lacrime di gioia si sforza di tenere in equilibrio la corona con cui è appena stata ornata la lunga chioma bionda, viene spinta, abbracciata da damigelle, circondata da ammiratori, assalita da reporter e da fotografi. Improvvisamente per il gesto malaccorto di uno dei giornalisti Maria viene colpita al viso da un microfono e l’urto, neanche violento, è però sufficiente per rimuovere un poco del trucco. Dopo un attimo di smarrimento Maria riprendere a sorridere ma le luci violente ed impietose mettono in risalto, dove il trucco è stato rimosso, una brutta epidermide grigiastra, untuosa, ruvida.
I fotografi e gli operatori si accaniscono nel riprendere il dettaglio e, in breve, tutto il mondo, che assiste in tempo reale alla premiazione, realizza che la bellissima Maria non è poi tanto bella.
Il pubblico in sala rumoreggia e fischia e le lacrime non più di gioia ma di paura, le sciolgono il trucco che, impietoso, cola sulle guance e si mescola con la cipria e fondo tinta così da trasformare il viso un attimo prima radioso in una maschera grottesca.
Maria, travolta dalle emozioni, corre a rifugiarsi nel camerino. Si cambia in fretta e fugge da una uscita secondaria tuffandosi in mezzo alla folla senza che nessuno la riconosca: senza make up è una ragazza piacevolmente normale, come ce ne sono a migliaia, niente di più.
Potrebbe essere la compagna di studi, la collega di lavoro, la vicina di casa, la nostra fidanzata, nostra moglie ma non la più bella donna del mondo.
Si dice che ogni giorno vengano fatti circa due miliardi di scatti: quante di quelle foto, rese pubbliche attraverso la stampa e la rete, ci colpiscono, ci emozionano, ci coinvolgono e fra queste quante foto-Maria, generate dai vari Photoshop ci sono?
Foto Vincitrice del World Press Photo Award di Paul Hansen
Recentemente è stato attribuito il World Press Photo Award ad una immagine (qui a destra) ripresa a Gaza da un fotografo svedese Paul Hansen durante il funerale di tre vittime – il padre e due piccoli figli – colpite da un missile israeliano.
La foto è ben composta, carica di tensione altamente drammatica ma l’autore ha ritenuto di caricarla di ulteriore pathos immergendo il corteo funebre in una atmosfera livida distribuendo la luce sui volti alterati dal dolore alla Caravaggio. E’ questa una foto-Maria?
Non sono stati aggiunti o tolti elementi fondamentali ma l’intervento in post-produzione c’è stato, è evidente e, per di più, l’autore non lo nega.
Dobbiamo criticare aspramente i giudici che hanno valutato degna di un premio molto importante una foto alterata, dobbiamo giudicare negativamente l’autore che è intervenuto pesantemente, dobbiamo condannare tanto gli uni quanto l’altro o dobbiamo associarci alle lodi ed alla difesa a spada tratta che alcuni hanno fatto di questa immagine?
Più in generale su quali foto possono essere fatti interventi, anche pesanti, con Photoshop o equivalenti e su quali non deve essere ammessa alcuna manomissione?
Poniamo che si scatti la foto, destinata alla pubblicità, di una borsetta. Nessuno si sognerebbe di biasimare il lavoro di post-produzione, magari marcato e pesante, che viene fatto per rendere l’oggetto attraente e per stimolare chi guarda all’acquisto.
Poniamo ora che durante una manifestazione di piazza si scatti una foto che, prima di essere resa pubblica, venga ritoccata per enfatizzare gli effetti negativi di quell’evento, le colpe dei dimostranti o gli eccessi delle forze dell’ordine. Anche in questo caso si tenta di indirizzare l’opinione dell’osservatore e quindi si dovrebbe essere portati all’accettazione del ritocco.
Ma tra i due esempi corre una grande differenza: nel primo l’immagine serve per “mostrare” mentre nel secondo si vuole “documentare” e nessuno è o dovrebbe essere disposto ad accettare un documento alterato o, addirittura, falsificato, manipolato.
C’è chi sostiene, ed io condivido questa opinione, che l’uso sempre più abbondante dei vari Photoshop contribuisca a livellare la qualità delle foto e ad omogeneizzare i gusti.
Si incomincia a rimpiangere il bianco e nero e la camera oscura dove venivano fatti interventi per elevare la qualità delle foto, inutile e sciocco negarlo, agendo su tonalità e contrasto, ricorrendo a sapienti mascherature, usando acidi o carte diversi a seconda dei risultati ricercati ma senza alterare in modo profondo e radicale l’immagine che si stava stampando.
E’ desiderabile che tutti coloro che si occupano di fotografia, dilettanti o professionisti che siano, adottino, come hanno fatto i giornali anglosassoni, un codice etico secondo il quale le manipolazioni digitali non superino “le normali pratiche” di controllo di toni e contrasto abituali in camera oscura. Questo codice va applicato, ovviamente, alle immagini che documentano (reportage, foto naturalistica ecc…) mentre la più ampia libertà deve essere concessa ai cosiddetti creativi.
Per questi ultimi vale , o dovrebbe valere, un unico limite e cioè quello dettato dal buon gusto, dall’equilibrio, dalla sobrietà.
Ma, a questo punto, il discorso diventa ancora più complesso tanto da richiedere un intervento successivo.
In rete montano le polemiche dopo la vittoria di Pau Hansen ad uno dei più importanti premi di fotografia a livello mondiale, il World Press Photo Award. Oggetto della discussione è l’evidente utilizzo di software di fotoritocco in uno scatto di reportage già colmo di tragicità.
Foto Vincitrice del World Press Photo Award di Paul Hansen
Il Fotocineclub di Mantova vuole segnalarvi un dibattito che si sta scatenando in rete dopo le premiazioni al recente World Press Photo Award. La foto vincitrice (scattata da Paul Hansen), infatti, presenta evidenti segni di fotoritocco. Nei forum in rete la polemica è già incandescente per la scelta del fotografo sulla “teatralizzazione del colore” e l’utilizzo massiccio di pennelli elettronici per rendere ancora più drammatica una scena già pregna di tragicità. Lo scatto mostra il funerale concitato e affranto di Suhaib e Muhammad, fratellini palestinesi di due e quattro anni uccisi il 20 novembre nel bombardamento israeliano della loro casa a Gaza City. Il punto focale del dibattito si concentra non tanto al contenuto della fotografia, ma allo stile utilizzato per raccontare quell’avvenimento. Non serve infatti essere profondi intenditori di fotografia per capire l’intervento in post produzione del fotografo: colori pittorici, dettagli nitidissimi in una scena in realtà molto concitata e un fascio di luce calda che piove da sinistra in un vicolo in realtà stretto e buio. Sappiamo che gli “aggiustamenti” dopo lo scatto erano ben noti anche all’era della pellicola: molti fotogiornalisti entravano in camera oscura con un negativo e ne ricavavano una stampa ben diversa attraverso la profonda conoscenza dei processi chimici per imprimere l’immagine su carta. La differenza è che oggi pare non esistere più uno stile che si differenzia da altri. L’utilizzo dei software di fotoritocco sempre più diffusa sta infatti rendendo le fotografie sempre più standardizzate tanto che, sostiene Pietro Masturzo (vincitore World Press 2010) “il fotoritocco ora lo fanno tutti, con gli stessi strumenti, lo stesso stile, e il risultato è che, Gaza o Siria o Haiti, le foto sono ormai tutte uguali. Peggio ancora, rendono uguale quel che raccontano. Io sono tentato di tornare indietro di vent’anni, al bianco e nero e alla camera oscura…” .
Seguiranno interventi di alcuni fotografi del Fotocineclub di Mantova che ci racconteranno il loro punto di vista sulla questione “fotoritocco”.
Pochi giorni fa ci ha lasciato uno dei più importanti fotografi italiani, Gabriele Basilico. Il Fotocineclub di Mantova lo vuole ricordare con un breve excursus storico della sua vita artistica straordinaria che l’ha portato a diventare un fotografo stimato e apprezzato in tutto il mondo.
All’inizio degli anni ’60 Gabriele Basilico è uno degli studenti che frequentano Architettura a Milano dove, dapprima sotto traccia e poi in modo sempre più clamoroso prende vita e si sviluppa la contestazione del mondo accademico vecchio e chiuso, della cultura immobile e sterile della società superata di quel tempo
Ad Architettura, insomma, ci sono in incubazione i bacilli che da lì a poco tempo porteranno alla esplosione della epidemia del ’68. E’ questa data, tanto esaltata da alcuni quanto vituperata da altri, che segnerà la linea di separazione tra due mondi, uno vecchio e insterilito e l’altro pieno di vita e caotico ma animato da un forte desiderio di rinnovamento.
Basilico che vive questa rivoluzione cercando dei punti di riferimento culturale conclude gli studi e, come accade a molti, non ha ancora maturato idee precise sulla strada da intraprendere.
Nella Milano che rinasce all’arte e alla cultura Basilico conosce Mulas e Berengo Gardin. L’ammirazione per i “maestri” ed il fascino infatuante che emana la fotografia (in quegli anni, non a caso, Antonioni tratteggia in “Blow up” la figura mitica del fotografo) lo spingono a lasciare la matita per la reflex.
Come la gran parte dei fotografi di quei tempi, professionisti o dilettanti che fossero, Basilico si forma attingendo stimoli e suggestioni dal mondo della fotografia statunitense: in quegli anni bisognava per forza guardare agli Stati Uniti perché in Italia, neorealismo a parte, imperava ancora una concezione manieristica della foto che portava alla ricerca della “bella” immagine priva però di legami con la vita sociale.
Dopo il ’68 si impara a fare della immagine fotografica un documento, a trasformare l’accademia sterile in testimonianza di vita.
Basilico che, come detto, lascia la matita per la reflex, continua a vedere il mondo con l’occhio e la sensibilità dell’architetto: la scansione dello spazio, l’alternarsi dei pieni e dei vuoti, i contrasi luce-ombra lo guidano, assieme all’interesse per il sociale, nella attività professionale.
Il lavoro che segna l’inizio di una brillantissima carriera e che lo vede impegnato dal ’78 all’80, è “Milano, ritratti di fabbriche”: in quegli scatti Basilico si esprime adottando i nuovi modi di leggere la realtà di un paese che era in veloce e radicale trasformazione.
Con “Viaggio in Italia”, successivamente, prende corpo la rivisitazione fotografica del paesaggio che era stato messo in secondo piano dall’interesse per il reportage e dalla ricerca dell’istante decisivo così come volevano le foto dei reporter della Magnum e la poetica bressoniana.
I successi e la partecipazione a grandi lavori (Bord de la mer, DATAR) accentuano il passaggio dal “momento decisivo” all’analisi e allo studio del paesaggio fatto con voluta e ricercata “lentezza dello sguardo”.
Il modo nuovo di guardare il mondo richiede non solo un modo diverso di guardare la realtà esterna, ma anche mezzi tecnici diversi da quelli usati a lungo in precedenza: non più reflex agili e nervose a mano libera ma macchine a banco ottico su cavalletto, non più piccoli negativi ma grandi lastre su cui fare muovere gli occhi con tempi molto dilatati.
Il lavoro, sempre più coinvolgente, lo porta a muoversi in tutto il mondo. Beirut distrutta dalla guerra, Parigi che si trasforma, Berlino che rinasce, le grandi metropoli che si espandono, l’architettura che cambia lo vedono sempre in prima linea.
Le mostre si susseguono con crescente successo come i libri in cui raccoglie i suoi capolavori.
Poi, un anno fa, un male feroce tenta di fermarlo ma Basilico continua a lavorare, a produrre immagini, tanto che la sua ultima mostra risale a pochi mesi or sono.
Infine, la recente notizia che mai avremmo voluto ricevere: la morte del grande maestro capace di entrare tra i più grandi fotografi di tutti i tempi.
Cari amici del Fotocineclub, vi segnaliamo un’importantissima iniziativa di Santagnese10 attraverso lo Spazio Giovani Artisti di Mantova che danno l’opportunità a tutti i giovani fotografi dai 18 ai 35 anni di partecipare ad un workshop fotografico con Joe Oppedisano. Manca pochissimo, affrettatevi i posti disponibili sono limitati.
Sabato 16 Febbraio, dalle 10.00 alle 18.00, santagnese10 ospiterà il fotografo Joe Oppedisano per un workshop sull’autoritratto.
Self Portrait
Nell’autoritratto siamo, allo stesso tempo, autore, soggetto e spettatore.
La potente dinamica tra i tre ruoli spinge il nostro Io Creativo a “parlare” con il linguaggio dell’arte e le iconografie.
Stare di fronte all’obiettivo stimola un dialogo tra la mente pensante e le viscere per attingere da un’inesauribile fonte di contenuti, che hanno bisogno di essere espressi.
Con questo approccio, le nostre emozioni difficili, i nostri “diffetti”, insomma il nostro dolore, la nostra gioia sono materiale grezzo per l’arte e la conversione in un’opera è un processo liberatorio, che purifica e rasserena.
L’opera, se l’autore lo desidera, può essere poi esposta, comunicata al mondo e così l’autore acquisisce un ruolo sociale, quello dell’artista, che esprime i bisogni presenti e futuri dell’umanità.
La condivisone di questo percorso con altri crea uno spazio nuovo per relazioni più profonde e significative.